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Quel buco nero chiamato Irap

di Salvatore Padula

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16 ottobre 2009


È da oltre dieci anni che economisti, giuristi e politici s'interrogano e si confrontano sull'opportunità di un'imposta come l'Irap. Dieci anni di battaglie, tra premature promesse (e talvolta annunci avventati) di soppressione e continue richieste di riforma. Dieci anni che non sono bastati ad attenuare le perplessità del sistema-imprese su questa modalità di prelievo.

L'Irap continua a restituire l'immagine negativa di un fisco quanto mai vessatorio. Succede fin dai giorni della sua nascita, con la riforma di Vincenzo Visco del 1997: si capì subito che l'Irap avrebbe avuto un ruolo decisivo negli equilibri politici ed elettorali del paese. Non a caso, nel novembre del 1997, l'attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, raccolse un incredibile consenso quando, di fronte a centinaia di persone, riunite da Forza Italia al cinema Capranica di Roma, aveva tuonato: «Si scrive Irap e si legge Imposta RAPina». E così, da allora, è percepita: un'imposta rapina.

Come spiegare tanta ostilità? In primo luogo per la sua stessa struttura, perché - non scordiamolo - l'Irap pesa di più su chi dà lavoro; penalizza chi è indebitato, visto che anche gli interessi passivi ingrossano la base imponibile; e, soprattutto, deve essere pagata anche da chi è in perdita. Ci sono commercialisti che ancora oggi non riescono a spiegare ai propri clienti questo "inganno": «È una follia – si sentono rispondere – non posso pagare altre tasse se sono anche in perdita».

A questa infelice percezione contribuisce poi l'uso spavaldo che si è fatto dell'Irap - almeno in alcune regioni - per rimediare in extremis agli sforamenti di spesa sul fronte sanitario, ponendone il costo a esclusivo carico del mondo produttivo. Più in generale, è vero che l'Irap è stata introdotta in sostituzione di svariate voci di prelievo, tra cui in testa i contributi sanitari delle imprese, ma è altrettanto vero che l'utilizzo del suo gettito per il finanziamento della spesa sanitaria delle regioni fa venire meno qualsiasi principio di correlazione tra il prelievo e la sua destinazione effettiva. Con grande sconcerto per chi quel prelievo lo deve pagare.

Infine, ma non per ultimo, le continue pronunce di questa o quella Corte - da Lussemburgo a Roma - hanno finito per moltiplicare le disparità di trattamento e le complicazioni su come e a chi far pagare l'imposta. La mezza bocciatura della Corte di giustizia europea; le sentenze sempre più numerose della Cassazione che tendono a escludere i contribuenti senza «autonoma organizzazione» (professionisti, ma non solo). La Corte costituzionale che, solo pochi mesi fa, ha salvato in corner il governo sul tema delle deducibilità dell'Irap dalle imposte dirette.
Insomma, una débâcle su tutta la linea.

Certo, sarebbe ingiusto non dare atto ai governi di aver via via accolto, almeno parzialmente, l'allarme delle imprese. Così è corretto ricordare che le detrazioni fisse sul costo del lavoro hanno di fatto escluso dall'imposta un numero non irrilevante di soggetti di piccole dimensioni; che il taglio al cuneo fiscale ha ridotto il peso del prelievo di quasi 5 miliardi all'anno; che un segnale è giunto con l'introduzione della possibilità di dedurre dall'Ires il 10% dell'imposta pagata (ma va detto, beneficio decisamente piccolo e forse concesso con la sola finalità di stoppare la possibile pronuncia di condanna della Corte costituzionale, di cui si è accennato sopra).

Non c'è dubbio, però, che il momento attuale imponga ben altre riflessioni. L'Irap rappresenta - sotto il profilo della politica economica - il vero nodo da affrontare. Il tema di un suo ulteriore alleggerimento, avendo come traguardo quello della sua soppressione, deve tornare in cima all'agenda del governo. Perché il sostegno alla ripresa ha bisogno di scelte forti, coraggiose. E concrete. E allora, serve la Tremonti-ter per gli investimenti; servono gli incentivi alla ricapitalizzazione (anche se i vantaggi reali non sono poi così rilevanti); serve persino il rientro dei capitali, se può essere utilizzato come supporto per agevolare l'accesso al credito.

Ma più di ogni altra cosa serve ossigeno per colmare il calo della domanda internazionale, come bene ha evidenziato Guido Tabellini nel suo editoriale sul Sole 24 Ore di domenica scorsa.

Un'emergenza reale, quindi. Come reali - si potrebbe ribattere - sono gli oltre 27 miliardi di gettito all'anno che l'Irap del settore privato continua a garantire alla finanza locale. Ma il punto, forse, sta proprio qui. Perché delle due l'una: o si difende a oltranza questo "tesoro" (almeno finché non si esaurirà per autocombustione) oppure si difendono le imprese. Una terza via al momento non si vede.

Per quel che può valere, forse non è proprio un dettaglio che altri paesi, al tempo stesso nostri partner e nostri concorrenti, si stiano muovendo con decisione nella direzione di rafforzare le misure fiscali a sostegno delle imprese.

16 ottobre 2009
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